Così portammo i primi C-130 a Pisa

L’acquisizione del C-130, all’inizio degli anni ’70, da parte della 46a Aerobrigata richiese un notevole impegno anche nel settore addestrativi per la riqualificazioni degli equipaggi della linea C-119. Per noi piloti e per i “flight enginers” (tecnici di volo) la prima fase della transizione fu svolta sulla base USAF di Little Rock nell’Arkansas, dopodiché ci riunimmo con i navigatori ed i “load master” (direttori di carico e lanci) sulla Pope AFB nel North Carolina per addestrarci all’impiego tattico della macchina.

   Una volta superati gli esami, passammo alla terza ed ultima fase della transizione: il corso istruttori. Il programma che seguì fu pressoché analogo al precedente; uniche innovazioni, la condotta del velivolo dal posto di destra con il compito di spiegare e dimostrare le varie manovre.

   Terminato il corso istruttori lasciammo quindi Pope per Dobbins AFB (Marietta) in Georgia, dove hanno sede gli stabilimenti della Lockheed, destinati allora alla produzione dei C-130H e dei mastodontici C-5 “Galaxy”, pronti per trasferire i primi velivoli che stavano completando i voli di collaudo. Purtroppo l’addestramento ed i relativi “check” teorico-pratici, che tanto avevano turbato i nostri sonni nei mesi precedenti, non erano ancora finiti. Presso la ditta frequentammo infatti un altro corso per essere aggiornati sui velivoli della serie “H”, diversi dai C-130E dell’Air Force su cui ci eravamo addestrati.

   I giorni passarono veloci ed il 23 marzo 1972 lasciammo finalmente Marietta con i primi due velivoli consegnati all’Aeronautica Militare.

   L’ambito privilegio di inaugurare la rotta atlantica con il C-130 toccò all’ufficiale più anziano, il ten.col. Travisi, che con il suo equipaggio (cap. Tesolat, cap. Badin, m.llo Zandonà e serg.magg. Baldacci) prese posto sul velivolo “India 19-88” (Vega 2). Io facevo parte del secondo equipaggio con il magg. Fronzoni, il cap. De Falco, il m.llo Perrotta e il m.llo Pedrotta. Il piano di volo per l’Italia prevedeva due scali tecnici, con sosta a Kindley (Bermuda) e Lajes (Azzorre).

   Durante la navigazione, lasciato il controllo di aerovia di Charleston (South Carolina), passai con il controllo oceanico di New York per informarlo della nostra posizione. Ritenni opportuno sostituire l’anonima sigla identificativa “I” (India) usata dai nostri velivoli militari con quella più esplicita di “Italian Air Force”. Dopo alcuni secondi di silenzio il controllore replicò: “station calling say again your full call-sign”. Confermai: “Italian Air Force 19-89 position”. Seguì ancora qualche attimo di silenzio, poi il fruscio della portante venne interrotto da una voce che con marcato accento partenopeo mi chiese: “uè paisà, ma voi chi siete?”. In due parole spiegai chi eravamo e dove andavamo e il nostro orgoglio fu condiviso dal buon italo-americano che non aveva perso l’occasione per salutare i suoi connazionali.

   Raggiungemmo Kindley in serata. L’indomani il volo sarebbe proseguito per Lajes nelle Azzorre, con i due velivoli distanziati di 30 minuti.

   Il mattino, ultimati i controlli, feci la chiamata di rito con la TWR per l’autorizzazione alla messa in moto. Pochi secondi dopo sentii che l’ “India 19-88”aveva dei problemi tecnici e che pertanto annullava temporaneamente il piano di volo. La notizia fu accolta da tutti noi con un urlo selvaggio di gioia… Automaticamente diventavamo il numero uno; i primi quindi a fare la trasvolata atlantica e probabilmente i primi ad arrivare a Pisa se la loro avaria, come ardentemente speravamo, fosse stata abbastanza seria da richiedere almeno mezza giornata di lavoro.

   Durante il rullaggio per il punto attesa, sfilammo davanti all’altro velivolo e l’equipaggio ci salutò con il solo indice e mignolo estesi… Sporgendomi dal finestrino ricambiai la cortesia con un gesto non proprio da manuale…

   Decollammo tutti euforici e salimmo a livello 270 (27.000 piedi) in rotta per le Azzorre. Il tempo era splendido e tutto andava per il meglio. Dopo due ore e mezzo di navigazione, mentre stavo addentando un sandwich, mi parve di vedere un lampo rosso nella “fire handle” del motore n.1 dove sono contenuti gli indicatori del “fire” o del “turbine overheat” al motore. Richiamai l’attenzione del capo equipaggio e del flight engineer, ma tutto sembrava normale. Evidentemente era stato un momentaneo riflesso del sole.

   Dopo una decina di minuti, ecco di nuovo apparire una debole indicazione nel “turbine overheat”; questa volta fu vista da tutti. Poco più tardi il segnale era inequivocabile ed applicammo la procedura prevista: il motore fu fermato e l’elica venne messa in bandiera. Dopo le comunicazioni di rito, invertimmo la rotta per il rientro a Kindley, ma nelle ore che seguirono nessuno parlò più: tutta la nostra euforia era ormai svanita. A questo punto eviterò di raccontare le accoglienze che ci riservò l’altro equipaggio al nostro rientro a Bermuda con un’elica in croce… Per di più il loro velivolo era stata riparato ed erano pronti, la mattina successiva, a riprendere il volo per l’Italia (l’arrivo a Pisa avvenne il 26 marzo).

   Più sfortunati di così non potevamo essere! Per una banale perdita di una guarnizione, non più grossa di uno spillo, ci eravamo giocati l’arrivo trionfale a Pisa.

   La tratta successiva, iniziata due giorni più tardi, fu praticamente senza storia e il 27 marzo 1972 alle ore 19.43 anche il secondo Hercules italiano veniva autorizzato al “finale per pista 04 destra”. Si concludeva così la nostra indimenticabile esperienza “americana”.

   A Pisa c’era ora il più bel aereo da trasporto del mondo.

                                                                                                     Gen.B.A. Enrico Gandolfi

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